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Giulio Greco

Giulio Greco

Significherebbe onorarlo d’una coerenza, di cui si rivela completamente privo, attribuire al possente cinismo contemporaneo l’eliminazione d’ogni rapporto col mistero, quel mistero che, anzi, sotto il di lui imperio, s’è dilatato fino a rendersi minaccioso; pur se le leggi del profitto economico costi quel che costi sian riuscite a trasformarlo, il mistero, in luogo di smarrimento e di perdizione; entro il quale far agire le proprie torve trame finanziarie e speculative; entro il quale, insomma, gettare le reti per moltiplicare all’infinito il gioco del proprio esecrando guadagno.

Sarebbe troppo comodo (essendo, già da sé, torvamente vile) che, da tale mistero, il potentato al comando e alla dirigenza della laicità tecnologico-finanziaria, non venisse in qualche modo toccato. La paura, infatti, continua ad essere lì, alle porte; e a sbiancare l’imago del re per nulla nudo. Risulta così curioso notare come, più esso usi proclamarsi estraneo a ogni considerazione di ciò che è, o sia, misterio, e più continui, o riprenda, a frequentare pratiche di salvaguardia o, addirittura, di prescienza del e dal pericolo: il pericolo, appunto, di quella forza insuperabile che è lui, il mistero. Naturalmente, tali pratiche non devono avere nessuna attinenza con fede alcuna. Fede, o fedi, vengono, anzi, compatite e derise. Il “miracolo”, ad esempio, non è più concesso (su questo molta cultura cattolica mostra la sua attitudine all’autosvendita, giustificata da vane e presunte ragioni storico sociali); ma è ammesso, anzi consigliato, il ricorso alla lettura dei pianeti, delle carte, delle mani, delle grafie, dei ninnoli e di quant’altro occorra. È ammesso, persino, il ricorso alle messe; purché nere; parodianti, cioè, le celebrazioni secondo fede o fedi. Ma, anche in questi casi, appena il rischio appare veramente, si preferisce spostare l’eventuale incontro con qualsiasi demone del Male, con qualsiasi Satana o Satanasso, verso la spiegazione psichica o psichiatrica; dunque verso la connessa, supposta possibilità liberatoria.

Il discorso, se affrontato come pur merita, ci porterebbe troppo lontano. Né, questa, potrebbe essere, in qualunque modo, la sede esatta; pur se, nell’ordine della memoria, mostri d’essere un luogo d’azione che, nulla tralasciando della ritualità vera, la ritualità strozzata del cinismo economico, anzi, tutta assumendola, giunge a ripresentare dinanzi alle ragioni del nostro intelletto e a quelle del nostro cuore, più d’un filo; del quale, una volta raccolto, non sarà facile liberarci. Lungo e profondo, ne sarà, anzi, il risuonare e, insieme, lo scavar suo dentro ciò che, ritenuto come perento, in verità, piano, piano, si riaccenderà e tornerà a respirare in noi; facendoci così vivere di bel nuovo, seppur segretamente e pudicamente, entro un “tempo” in cui il mistero, dimenticato e deriso, prenderà a rivelare la sua ineluttabilità di presenza; e di presenza eterna.

Il rischio, ma anche la sottilissima magia, di Greco stanno proprio nella levità d’amicale compagno, o fratello, di viaggio e di ventura e, insieme, nella petrosa durezza con cui i suoi “dipintioggetti” si lamentano e si straziano, proprio adesso, proprio nel presente, circa il sepolto passato; e, così facendo, scoperchiando le bare del tempo. Partendo dalla sua terra, il Cilento, ad essa sembrando quasi arrestarsi, in verità, riconoscendo, via, via, l’intercambiabilità, profonda e primigenia, d’ogni “segno” rituale, costruiscono, per noi, gli stendardi, le bandiere, i sandolini in cui l’antico, anzi antichissimo coacervo dei riti balugina nell’oggi e giunge, non solo a farsi partecipe, ma a rivelarci, sotto i tumuli delle stagioni e della storia, i suoi sensi e i suoi significati. Proprio come accade di quelle stelle che, pur già morte, a noi è dato di continuare a vedere. Una permanenza “in limine” dunque? Ma, cosa, oggi, di veramente vero, non cresce e non si muove, pur come possibilità di forma, su di esso, cioè, sul limite? I “quadrioggetto” di Greco son sì da appendere e l’artista stesso li ha muniti, con trepida cura, dei gancii necessari; ma subito vien da chiedersi – appendere dove? E, per quale mai ragione?

Non certo, quanto a ragione, per farli rientrare nella linea del “quadroquadro” e della connessa sistemazione decorante o collezionistica. V’è qualcosa che impedisce a questi stendardi, a queste sacre, ferite, straziate, bellissime “bandiere”, di venir ridotte alla legge del consumo; fosse pur quella, altissima, d’esser collocate accanto a una seire ben costruita; insomma, a una vera e propria raccolta di capolavori.

Questo qualcosa è “altro”. E “altro”, tanto nei confronti d’ogni gesto istallativo, quanto nei confronti d’ogni effrazione polemica o d’urto. L’evento più sorprendente, in queste opere di Greco, è che, esse, il luogo in cui venire appese, poniamo il muro d’una stanza o, chissà, nei giorni delle feste, il davanzale o il balcone più in vista della casa, ovvero la sua cara porta d’ingresso, lo indicano in assoluta concordia. Una concordia che, quale correlativo-oggettivo figurale, genera un’assoluta bellezza.

Del testo, come potrebbero i segni della ritualità venir dissotterrati se non per e con amore?

L’azione creativa di Greco, la sua riduzione (che è insieme sublimazione) a una manualità d’antico falegname, ma altresì d’antico orafo, di lavorante di stoffe e di pelli ma altresì di straordinario bulinatore d’argenti, di peltri, da “tagliatore” di povere, splendidissime pietre, ha come pedale del canto, o inno, pressoché processionale che, opera dopo opera, costruisce, una quantità enorme, peperò consapevole, dunque, riflessa sempre in sé e nelle proprie spinte morali, di passione. E lei, la passione, che trapunta di meraviglie le pendule “tele” su cui Greco opera con la coscienza di un etnografo e, insieme, con la libertà e la grazia d’un poeta, anzi d’un cantore deietto di miti, ovvero d’intramontabili favole e d’intramontabili martirii. Un po’ sudari, un po’ lenzuoli, un po’ sindoni, un po’ stoffe da “fardo”, queste tele s’arrotolano, talvolta, sul povero legno dipinto o verniciato, su cui stan stese; talaltra, s’aprono come se, tra i segni rituali dell’uomo, Greco avesse voluto riproporre anche il tabernacolo cristiano. Spalancando le ante, ne esce, allora, una luce che sta tra l’ostia di Cristo e l’emblema, ormai dimenticato, di qualche sacrificio pastorale; forse, di qualche sacrificio o rito italiota; o barbarico.

Noi le guardiamo, queste “tele”; ne restiamo presi, affascinati. Poi, la mano vorrebbe passarvi e ripassarvi sopra; forse desiderando che i segni, di cui sono ripiene, scaldino e vitalizzino di sé anche il nostro vivere d’oggi; un vivere amaro, disperato e, per ciò che riguarda la “religio”, ciecamente strozzato e muto. La poesia, dunque, come lenimento, come balucinio di speranza per quest’ultima spiaggia di tempo e di storia sulla quale siamo stati chiamati ad esistere? Certo. Ma un lenimento e una speranza che non ammettono “requie”; che chiedono, anzi partecipazione al dramma e, quando risulti necessario, capacità e forza di ribellione.

Giovanni Testori, 1989